Le locandine degli spettacoli a Dialogo nel Buio di Gianfelice Facchetti

Nel bellissimo articolo apparso su Tuttosport di domenica 2 dicembre, Gianfelice Facchetti racconta i dieci anni di Teatro a Dialogo nel Buio

Gianfelice Facchetti, attore, drammaturgo, regista e scrittore, figlio del grande Giacinto, collabora da 10 anni ormai con l'Istituto dei ciechi di Milano, dove ha portato in scena il "Teatro al buio" e dove continua a organizzare eventi, spettacoli teatrali, per illuminare innanzi tutto la vista dei cuori: sia di chi recita, sia di chi assiste. Così, seguendo un sentiero mentale, evocativo e mnemonico, un sentiero delle emozioni e del tempo, ci è tornata alla memoria una frase tratta da "Cecità" celebre, meraviglioso e insieme tremendo romanzo di José Samargo, premio Nobel per la letteratura nel 1998. Portoghese. Un gigante anche del teatro e della poesia. La citazione, allora: "Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono" Per cui, quando abbiamo cominciato a scalare la montagna umana e professionale fin qui tracciata nella vita da Gianfelice, lo abbiamo invitato a proiettare su carta un insieme di visioni. Le sue visioni, in un intreccio tra il teatro, la tv, il calcio, suo padre, la memoria, il futuro. Si trattava di individuare un filo rosso. Un filo di Arianna, per meglio dire. E abbiamo scelto di partire dai suoi spettacoli all'Istituto dei ciechi di Milano. Proprio perché fatti lì.

«Arrivò in Italia "Dialogo nel buio" dalla Germania. Un progetto internazionale. Una mostra in cammino, in continua riproduzione sensoriale e artistica. Un percorso che una persona vedente segue, accompagnata da un non vedente. In un buio totale. Fui tra i presenti, ci scrissi sopra anche parte della tesi di laurea. Rimasi folgorato. Così, anni dopo, andai all'Istituto dei ciechi per provare a realizzare con loro spettacoli teatrali al buio. Sarebbe statala prima volta per l'Istituto. Mi diedero a disposizione degli spazi. E l'iniziativa è attecchita subito. Per 4, 5 anni c'eravamo solo noi ad allestire spettacoli lì, portando ogni volta sceneggiature diverse. Si è anche tracciata una strada. Dove oggi camminano pure altre compagnie teatrali che passano dall'Istituto. La mia idea non era realizzare spettacoli teatrali apposta per i non vedenti, ma offrire una fruizione diversa, che comprendesse anche questa esperienza. Gli spettatori vengono accompagnati in fila indiana da persone non vedenti. Quindi inizialo spettacolo: non un fiume di parole. Io mi muovo in questo spazio. L'interazione col pubblico è molto forte. Si crea una sorta di complicità con chi ti è accanto. La maggior parte degli spettatori è vedente, ma siamo tutti immersi in un buio totale che ci accomuna. E quel buio risveglia qualcosa di ancestrale in ciascuno di noi. Un buio fitto. E in questa condizione inusuale lo spettatore prova naturalmente il desiderio di creare nuovi rapporti sensoriali ed emozionali con chi ha a fianco». Nel 2016 per questo suo impegno pluriennale Facchetti ha ricevuto il premio "Louis Braille" dall'Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti. «C'è un bellissimo rapporto. Una stima reciproca. E ricevere quel premio è stato gratificante, emozionante. Ma più ancora conta la fiducia in me che nutrono all'Istituto dei ciechi di Milano. La libertà di cui godo, quando lavoro in via Vivaio».

Ora, da Gianfelice Facchetti desideriamo apprendere cosa veda quando è in scena, quando recita nei teatri, ma in questo caso non al buio. «Io preferisco agire in quei teatri in cui il pubblico è a ridosso di chi recita. Non cerco a tutti i costi lo sguardo dello spettatore, ma talvolta proprio uno sguardo che si incrocia può cambiare qualcosa in scena: un respiro, un modo di dire una frase. Il pubblico ti arricchisce. E più visioni hai, durante la recita, più il tuo racconto diventa ricco. Visioni reali e immaginarie. Perché il pubblico lo vedi, ma soprattutto lo senti. Ed è fondamentale ascoltare, per vedere. Cioè per distinguere. Noi abbiamo occhi che inquadrano e cristallizzano tutto in visioni frontali. Ma lavorando col buio per anni si è arricchito anche il mio lavoro alla luce. E ora ho visioni... come dire... amplificate. E cerco di trasmetterle. Perché la gente vede, ma pochi distinguono. Penso già solo ai rapporti umani. Vediamo tanto, ma sentiamo poco. Oppure vediamo i pregiudizi. Siamo inondati di immagini, al giorno d'oggi. E troppo spesso le interpretiamo senza darci il tempo di comprendere che cosa ci sia dietro. Ma talora è anche un'inevitabile, umana sintesi prodotta dall'accelerazione dei tempi. Siamo bombardati e fagocitati da immagini incessanti che vengono verso di noi. Ma è importante cercare di chiederci sempre cosa vediamo, al giorno d'oggi, dal mattino alla sera, in ogni campo. E che cosa distinguiamo». [...]

di Marco Bonetto
da Tuttosport di domenica 2 dicembre 2018

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